Laing, Ronald David |
R. D. Laing (1927-1989) nacque a Glasgow e morì d'infarto a Saint-Tropez. La sua famiglia era di modeste condizioni economiche; era figlio unico e viveva con i genitori in un anonimo condominio nella parte meridionale della città. Nel 1951, dopo la laurea in medicina ottenuta con qualche difficoltà, progettò di recarsi a Basilea per perfezionarsi accanto a K. Jaspers, con il quale aveva intrattenuto una corrispondenza. Il progetto però non potè realizzarsi, perché proprio allora sopravvenne una modifica nell'ordinamento delle forze armate britanniche volta a includere un corpo sanitario; Laing fu reclutato e dovette trascorrere due anni nell'esercito. Sotto le armi maturò la sua vocazione psichiatrica; scelse di lavorare alla Central British Army Unit e cominciò a passare i suoi giorni nel padiglione di un tradizionale ospedale psichiatrico militare, dove venivano concentrati soldati diventati nevrotici o psicotici durante i combattimenti, insieme con alcolisti e altre persone affette da più o meno gravi disturbi di personalità. In quel luogo Laing realizzò il segreto fondamentale della sua professione: se avesse voluto nutrire una speranza di comprendere quegli uomini derelitti, non avrebbe dovuto far altro che trascorrere una grande quantità di tempo insieme a loro con l'intenzione di ascoltarli con attenzione e in assenza di pregiudizi morali o clinici. Fu così che cominciò a trascorrere molte ore al giorno con quei pazienti, da soli, spesso chiuso insieme a loro nelle stanze di sicurezza. Era un periodo ancora prefarmacologico, e i malati venivano per lo più «trattati» inducendo in loro un coma insulinico, oppure con l'elettroshock o la lobotomia. Ben presto Laing si trovò a disagio nei confronti di quei tradizionali «arnesi» della psichiatria, fondati pili su una mera empiria non verificata razionalmente che sul desiderio di una reale comprensione dei malati. E proprio in quell'ambiente senti nascere in sé la voglia di andare controcorrente: invece di allinearsi sulle false certezze della psichiatria clinica e manicomiale, si prefisse di riuscire a capire che cosa si proponessero i pazienti maniacali affetti da disturbi del pensiero. A ventisei anni Laing lascia l'esercito e intraprende la carriera di psichiatra civile: prima al Royal Gartnavel Mental Hospital di Glasgow, poi al Southern General Hospital della stessa città. Ad allora risale la convinzione secondo cui gli ospedali psichiatrici accolgono quotidianamente persone che vengono «rinchiuse» per una condotta che non è criminale, ma che i loro parenti, amici, colleghi e vicini di casa trovano insopportabile, ritenendo che questa sia l'unica soluzione che la nostra società ha per tale invivibile impasse. Laing scrive, legge e lavora instancabilmente. E’ immerso nella raccolta del materiale che poi confluirà nel suo primo grande libro, L'io diviso, opera veramente geniale che D. Winnicott, in una lettera all'autore, confessa avrebbe voluto scrivere lui stesso. Laing si è appropriato criticamente di tutta la tradizione della psichiatria fenomenologico-esistenziale: K. Jaspers, E. Minkowski, L. Binswanger; ma soprattutto si lascia guidare dal vissuto della sua esperienza professionale. Lavora in ospedale ed è talmente disgustato e indignato dalla disumanità e dalla vergogna di quel che accade nel mondo della psichiatria, che gli viene spontaneo associarlo alla dimensione dei campi nazisti. Nel frattempo ha assorbito le idee di H. S. Sullivan sulla concezione interpersonale della psichiatria e di J. Moreno sullo psicodramma, e vuole intraprendere un'esperienza istituzionale nella quale gli sia possibile verificare tutte le nozioni apprese, ma che soprattutto gli consenta di porre al centro dell'opera la persona sofferente, priva delle etichette che la definiscono. Fu così che si trova a lavorare nel reparto dei «refrattari» del Gartnavel. Sospendendo il giudizio clinico, Laing comincia a chiedersi quali siano le persone socialmente più isolate, quelle considerate dalle infermiere le più disperate, quelle con cui è più difficile stare e per questo più trascurate. In poche parole, si propone di individuare quali siano le persone assegnate al gradino più basso della particolare gerarchia sociale dell'ospedale, in modo da poter osservare che cosa accadrebbe se si abbandonasse la tendenza a considerarle così definitivamente irrecuperabili. Individuati dodici pazienti, Laing dà così vita a un'esperienza completamente nuova, consistente nel restare con loro dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, dal lunedì al venerdì. La sua presenza aperta alla speranza, la sua convinzione circa il fatto che le condizioni di partenza di quelle dodici persone dipendano soprattutto da pregiudizi e incrostazioni istituzionali, sono sufficienti a modificare profondamente le relazioni e lo stato clinico dei pazienti. Quell'esperienza dura circa un anno e mezzo, e alla fine molti pazienti del gruppo sono in grado di lasciare l'ospedale. Nel periodo trascorso nell'esercito e negli ospedali di Glasgow, Laing aveva preparato tutto il materiale che avrebbe costituito la base della sua teoria dell'insicurezza ontologica, dei meccanismi di «risucchio», «pietrificazione» e «implosione», caratteristici dei modi di esistenza delle persone psicotiche. Emerge qui quella formidabile intuizione lainghiana secondo cui, se si vuole rendere intelligibile l'esperienza della persona schizofrenica, questa deve essere osservata e analizzata nel suo reale contesto di vita. La malattia psicotica, infatti, non può essere limitata a un evento che si compie tutto all'interno dell'organismo dell'individuo. Nel 1956, dopo le prime esperienze personali, Laing ha l'occasione di lavorare come psichiatra presso gli ambulatori clinici del Tavistock Institute of Psychoanalysis di Londra, dove si propone di intraprendere un training psicoanalitico. Ha letto gli scritti di S. Freud e si è appassionato alle sue storie cliniche. Qui fa la sua analisi quadriennale con Ch. Rycroft: non è un'esperienza entusiasmante, ma nel frattempo può apprezzare ed essere apprezzato dal fior fiore della psicoanalisi di allora: conosce W. Bion B M. Balint, va in supervisione da Winnicott e J. Rivière; i suoi capi di ricerca sono J. Bowlby e J. Sutherland. E presso le edizioni del Tavistock Institute escono i suoi primi cinque libri: L'io diviso (1960), Normalità e follia nella famiglia (con A. Esterson, 1964), La percezione interpersonale (con H. Phillipson e A. Lee, 1966), L'io e gli altri (1969), Ragione e violenza (con D. Cooper, 1971). Non appena compie il suo training psicoanalitico, Laing si reca per la prima volta negli Stati Uniti, a San Francisco, dove G. Bateson sta portando avanti i suoi celebri studi sulla comunicazione in psichiatria, rispetto ai quali egli avverte particolari affinità. C'era in Laing una tenacia e una curiosità con cui andava in cerca di quegli autori e quelle idee che avrebbero potuto aiutarlo ad affrancarsi dall'ovvio: liberarsi dalla prigione delle cose date per scontate fu una preoccupazione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Assolutamente convinto che il compito precipuo del pensiero sia la problematizzazione dell'ovvio, Laing estende questo impegno al campo dell’agire psichiatrico. Vuole ostinatamente porre alla psichiatria quelle domande che sembravano aver già avuto una risposta, ridare lo statuto di ovvietà di quelle rispose che, non problematizzate, declinano l'esistenza. Si dà il compito di sollevare il velo dovuto all'occultamento creato da tali ovvietà, pensando che un simile atteggiamento costituisse la strada maestra dalla quale non si può deviare se si vuole restare fedeli al pensiero quale principio costitutivo dell'umanità; a meno di non rinunciare a se stessi, intorpidendosi nell'indubitabilità della mancata riflessione o nella soporosa indifferenza della rinuncia. Laing era persuaso che un medico psichiatra dovesse prima di tutto tenere deste le domande o, almeno, questo era un principio vincolante per lui che voleva affrontare con la necessaria umiltà, ma anche con fierezza, con generosità, o anche tremando, il pericolo intrinseco a ogni autentico pensare. Dalla fenomenologia (E. Husserl e M. Heidegger) e dall'esistenzialismo (S. Kierkegaard, P. Tillich e J.-P. Sartre) Laing trae la forza per concepire la psicoterapia innanzitutto come un fare e un volere, prassi che costringe il terapeuta alla responsabilità che l'agire comporta: quella responsabilità che evidenzia non un soggetto padrone di una teoria indiscutibile, bensì un soggetto esposto al rischio. Laing vuole dire che nel rapporto con il malato bisogna abituarsi all'idea che l'altro deve restare altro, assolutamente esteriore. Solo se si accetta tale esteriorità, abbandonando ogni velleità di comprensione totalizzante, si può ritenere di essere calati nel momento elettivo dell'essere umano. L'accettazione senza riserve dell'assoluta esteriorità è la cifra che scandisce la responsabilità per l'altro. Laing non si convertì mai ad alcuna scolastica psicoanalitica; in particolare, non si fece mai catturare dalle leggi dell'interpretazione e dalla conseguente mistica del transfert. Tenne sempre ben presenti i difetti capitali degli psicoterapeuti: orgoglio, ipocrisia, rigidità, insensibilità, disinteresse. La situazione analitica, con le sue rigide regole tecniche, può produrre nei pazienti molta sofferenza, ma può indurre nell'analista un ingiustificato senso di superiorità e di orgoglio che, propriamente, consiste nel ritenere di poter affrontare e risolvere il male con le sue sole forze interpretative, portando il terapeuta a quel sentimento di pericolosa potenza che lo compensa dell'insufficiente capacità di amare. Preso da questi problemi, e quasi allo scopo di liberarsene, Laing si affaccia sulla teoria sistemica di Bateson, ma anche in questo caso senza assolutizzare il famoso meccanismo del double bind: il «doppio vincolo» sarebbe rimasto per lui un esempio particolarmente perspicuo di relazione incarcerante, ma non la soluzione per l'eziologia della schizofrenia. Quando, nel 1958, Laing comincia a interessarsi alla relazione tra ricerca e terapia, si serve da un lato di alcuni risultati della psicologia della forma; dall'altro, ricorre agli studi di Bateson sulle interazioni. Arriva così a un vero e proprio spostamento del punto di vista: l'accento non è più messo su ciò che si vede, bensì sul modo in cui si vede. Se si osservano gli stessi fatti nei termini del processo comunicativo interattivo che avviene fra le persone, allora si offre alla vista qualcos'altro: quelli che chiamiamo segni e sintomi di un processo di malattia appaiono molto più comprensibili socialmente di quanto non pensi la maggioranza degli psichiatri. Di ritorno dagli Stati Uniti, Laing si adopera per ottenere un finanziamento per la realizzazione di una ricerca sulla comunicazione e sull'interazione all'interno delle famiglie con un paziente designato quale schizofrenico e in quelle prive di pazienti diagnosticati come tali. Viene raccolto ed elaborato soltanto il materiale relativo al primo gruppo di famiglie, ma questo è pili che sufficiente a consentire di inaugurare un nuovo scenario sui temi della famiglia e della schizofrenia. Nei dieci anni che vanno dal 1965 al 1975, Laing si conquista, suo malgrado, la fama di oppositore alla famiglia nucleare tradizionale, ritenuta responsabile della disintegrazione psichica di alcuni suoi componenti. La sua intenzione in realtà non era di demonizzare la famiglia, quanto piuttosto di studiarne le interazioni tra i vari membri e i loro stili comunicativi, al fine di stabilire una possibile relazione tra interazione, comunicazione e presenza di un individuo diagnosticato come schizofrenico. Malgrado la tristezza derivante dal constatare come la famiglia sia spesso un luogo di grande infelicità, Laing non si spinge mai a condannare globalmente l'istituto familiare, né ad affermare che la famiglia come tale debba essere liquidata, o che sarebbe meglio per tutti vivere al di fuori di essa. Certamente attribuisce alla famiglia un'enorme importanza, ma non ritiene che sia necessariamente una istituzione pervasiva e totalizzante; ne riconosce semplicemente l'incidenza e tenta di comprendere il contributo che fornisce alla vita degli individui. «La famiglia causa la schizofrenia» è un'affermazione che a Laing appare semplicemente come un nonsenso: lui arriva allo studio delle famiglie non essendo soddisfatto della teoria secondo la quale la schizofrenia sarebbe qualcosa che capita tutta all'interno di una persona. Egli è convinto che l'attribuzione della schizofrenia nasca nel contesto di un particolare schema disgiuntivo di rapporti interpersonali. Gli diventa a un tratto evidente che praticamente tutte le osservazioni dei cosiddetti schizofrenici hanno luogo entro le mura di una qualche istituzione psichiatrica. Ugualmente, già nel 1958 Laing comprende che il modo di vedere e il modo di conoscere, che è parte integrante ed essenziale della clinica psichiatrica occidentale, comportano una certa maniera di guardare all'altra persona. Modo di guardare, di parlare all'altro che sembra contribuire, da un lato, a farlo impazzire e, dall'altro, a farlo vedere come pazzo. Gli è tuttavia perfettamente chiaro che, se vuole comprendere qualcosa degli schizofrenici, deve vederli al di fuori delle istituzioni psichiatriche, nel loro contesto naturale di vita. E’’ in questo quadro di riferimento che Laing si impegna nello studio delle famiglie perché, in realtà, è la famiglia nucleare a rivelarsi come il gruppo più immediatamente rilevante nella vita di ciascuno. Pur non avanzando l'ipotesi che sia la famiglia a causare la schizofrenia, ammette però che essa possa corrispondere a una diagnosi clinica espressa nel momento in cui uno psichiatra presuppone che in un dato individuo, che manifesta taluni sintomi, deve essere in atto un processo patologico del quale si conosce poco o nulla. Inoltre, quando uno psichiatra giudica che un'altra persona è schizofrenica, il potere sociale di quest'ultima tende inesorabilmente a zero. Come a dire che, a livello delle nostre conoscenze scientifiche, la diagnosi di schizofrenia ha un valore più sociale che clinico. A più di quarantanni dalle formulazioni lainghiane sulla schizofrenia, anche i rappresentanti illuminati della psichiatria accademica si trovano sulle stesse posizioni. Anche loro, infatti, sostengono come sia improbabile identificare un'unità morbosa denominabile schizofrenia; come i pazienti diagnosticati in quanto schizofrenici presentino caratteristiche ed evoluzione del quadro clinico assai differenti; come non esista un decorso tipico di questa presunta malattia. Per quanto riguarda poi il danno biologico che starebbe alla base del processo patologico, oggi si ha la certezza di una cosa sola, e cioè che qualsiasi anomalia venga presa in considerazione, essa è assente nella maggioranza dei pazienti positivi alla diagnosi. Malgrado ciò, la schizofrenia continua ad essere trattata come un'entità di malattia; con l'unico risultato che le persone diagnosticate come schizofreniche hanno una buona probabilità, nonostante tutte le loro diversità, di andare incontro a un medesimo destino sociale e terapeutico-assistenziale. Ancora oggi, infatti, è lo stigma associato alla diagnosi di schizofrenia ad essere prevalente: è ancora l'incomprensibilità, l’ imprevedibilità, la pericolosità, oltre all'inguaribilità, a determinare il destino delle persone che sono state definite schizofreniche. Dal canto suo, Laing cercò di guardare all'intelligibilità della condotta degli schizofrenici, impegnandosi a indagare in ogni singolo caso la natura e le condizioni di intelligibilità, convinto com'era che si potessero comprendere i modi di esistenza degli schizofrenici molto più di quanto in generale suppongano gli psichiatri. Soprattutto se si ha la pazienza di prestare attenzione all'interazione concreta, personale, immediata del loro microcosmo sociale e di esaminare il strema di comunicazione ivi operante. Così scendo, diventa più agevole comprendere il groviglio delle interazioni in cui i malati sono immersi e come, a volte, la confusione che li avvolge non sia che il risultato di una loro interiorizzazione del contesto in cui vivono. Nel 1965 un gruppo di psichiatri inglesi e americani, tra cui Laing, Cooper, Esterson, ai quali si unirono M. Schatzman, H. Crawford e L. Redler, fonda, grazie a finanziamenti messi a disposizione da privati, la Philadelphia Association che, in poche settimane, organizza a Kingsley Hall un luogo che vuole essere di radicale messa in questione dell'istituzione manicomiale e, insieme, di sperimentazione di nuove modalità di psicoterapia e di nuove forme di vita comunitaria per gli schizofrenici. Con questo atto si è soliti contrassegnare la nascita ufficiale del movimento antipsichiatrico inglese, ma anche di una delle esperienze culturali e politiche più significative dell'Inghilterra tra gli anni 1960-70, a cui guarderanno artisti, intellettuali, giovani, come a un riferimento imprescindibile nell'epoca della contestazione. L'insegnamento che Laing ha lasciato a proposito della relazione con il paziente schizofrenico è incentrato forse sul fatto che proprio qui la fiducia non può che coniugarsi con la nozione di «sostituzione» e con quella di «responsabilità». Ma sostituirsi non vuol dire mettersi al posto dell'altro per sentire ciò che egli sente, non significa nemmeno che l'uno diventa l'altro, né consiste, anche nel caso in cui questi sia bisognoso e disperato, nel coraggio che comporta una tale prova. Sostituirsi significa, invece, portare conforto identificandosi e associandosi alla debolezza e all'essenziale finitezza d'altri; sopportarne il peso sacrificando il proprio interesse e il proprio compiacimento. Quando avviene che il soggetto agente in terapia riesce a mettersi tra parentesi, allora le sue doti si concretizzano in responsabilità per altri. Perché nell'esistenza umana, oltre alla vocazione della persistenza, esiste un'altra vocazione: rendere possibile l'esistere d'altri, il loro destino. STEFANO MISTURA |